Mirella Bentivoglio - 2002 - Presentazione della mostra Imago libris
Venendo meno alla discrezione, introversione, e separatezza, che distinguono questo particolarissimo artista, darò per prima cosa delle notizie che probabilmente egli si asterrebbe dall'affidare alla parte informativa del catalogo.
A Roma dove risiede, Gianni Martinucci ha tenuto in anni passati prestigiose mostre personali, via via presentate da Gillo Dorfles, Maurizio Fagiolo, Lorenza Trucchi ed altri garanti di alta affidabilità culturale. Tre di queste si sono tenute nella storica Galleria L'Obelisco, che proprio in questi giorni viene ricordata con una manifestazione celebrativa presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Martinucci ha inoltre partecipato alle principali rassegne nazionali e internazionali del libro-oggetto, a Palazzo Vecchio, al Forte Belvedere di Firenze, al Moma di New York e così via, con le sue pagine lignee percorse da miniscritture intese a collegare logos e natura.
Le sue scritture sono tratte dai testi antroposofici di Rudolf Steiner, il profeta-scienzato del ventesimo secolo che portò al superamento della divisione tra sfera laica e sfera religiosa, tra conoscenza e consacrazione.
La costruzione dei raffinati libri di carta che qui vengono presentati, ha seguito, da oltre un decennio, la precedente produzione ligneo-scrittoria di Martinucci (che è parallelamente ancora in atto); resta in essi la fedeltà alla matrice testuale steineriana, con immagini che oserei definire "paradisiache", a loro volta tese a superare la divisione tra dato illustrativo e invenzione aniconica, tra figurazione e astrazione.
Assecondando le teorie antroposofiche, sono immagini che paradossalmente "rappresentano" i fasci di energia sprigionata dalla non percepibile materia della manifestazione universale.
L'attitudine a operare solitariamente è uno dei caratteri distintivi di un gruppo (vorrei piuttosto definirlo "non gruppo") di artisti dell'Italia Centrale che si sono rivolti a operazioni tra linguaggio e immagine. Negli anni sessanta fu la scrittura visuale di poeti confluiti a Roma anche da altre regioni; si chiamavano allora Villa, Mussio, Balestrini, Spatola, e così via.
Negli anni Settanta, quando quel primo non-gruppo andò sparpagliandosi nelle regioni di origine o di elezione, emerse nell'Italia Centrale un altro non collegato nucleo di operatori che, a differenza dei primi, si rivolgevano soprattutto all'instaurazione di un inedito rapporto tra scrittura e materia.
Furono i vari Cattania, Bellucci, Del Donno, e altri; scritture di fuoco su legno o su cuoio, o, con una sensibilità risalente agli archetipi, incisioni di scritture su cera o su terracotta.
Tutti artisti raccolti nella celebrazione semiologica della concretezza materica; concentrati, con silenziosa intensità, nel loro ruolo di neoamanuensi. Martinucci fu il primo tra questi, e operò sempre nel cuore storico di Roma, in una sorta di monastico ritiro, assolvendo a una salvifica vocazione di chiusura esterna e apertura interiore; fuori dal tempo e dentro ogni tempo, come la città delle lapidi, questa "città scritta" che ospita il suo sapiente lavoro.
Claudia Ciardulli - 2002 - Galleria Il Punto di Svolta Imago Libris
Da sempre il libro partecipa dell'aura del sacro, viene non solo pensato, scritto e stampato, ma decorato e impreziosito. Esso è il luogo del pensiero che si fa parola, della memoria, dell'immaginario umano, nonché della rivelazione della sapienza divina.
Di questa sacralità si occupa da tempo Gianni Martinucci, per il quale l'arte è percorso di autoconoscenza e l'artista ponte per quel misterioso filo che intercorre tra cielo e terra.
Egli ha trovato nella esplorazione delle possibilità e delle implicazioni del libro l'icona stessa della sua visione del rapporto tra artista e universo.
Gaspero del Corso - 1991
Caro De Florio, mi ha fatto molto piacere tu abbia inaugurato una nuova Galleria a Roma senza legarti a una tendenza ma ispirandoti solo ai tuoi sentimenti che ti fanno valutare solo quello che tu ami.
Anch'io mi sono regolato così da quando Irene Brin ed io abbiamo aperto la Galleria "L'Obelisco", dove abbiamo mostrato tutto quello che ci piaceva in quattrocento mostre.
Da Monsù Desiderio del XVII secolo a Picasso, dall'Arte Maya a Balla, dai grandi fotografi a Tolouse Lautrec, da Bruno Caruso a Henry Moore.
Gianni Marinucci ha avuto da noi la sua prima personale nel 1974 e nel 1976 abbiamo festeggiato con un'altra mostra il trentennio di attività dell'Obelisco: come vedi lo considerammo la nostra scoperta più importante.
Ora l'Obelisco è chiuso, ma io seguo Martinucci nel suo lavoro
che rallegra i miei ottant'anni.
Tanti auguri affettuosi.
Gillo Dorfles - 1976
Analizzare le recondite strutture della natura.
Scoprire i misteriosi retroscena delle nostre percezioni, attraverso un lavoro di analisi quasi scientifica, attraverso una paziente elaborazione dei dati sperimentali. Ma poi, da questa matrice metodologica e scientifica (o solo introspettiva e analogica) fare esplodere la vita stessa del colore attraverso minute e parcellari segmentazioni, attraverso un gioco sottile di intarsio, attraverso fitte righe di frasi allineate, quasi illeggibili, e che probabilmente non devono essere lette.
Le tavole, le tele, le carte di Martinucci hanno questo di insolito e di estremamente avvincente (proprio in un periodo come l'attuale di indifferenza per ogni preziosità compositiva, di disprezzo per il paziente lavoro artigianale): la loro piacevolezza, che non è solo edonismo o decorativismo, ma è anche amore per i materiali più umili (tavole di compensato, telai di legno
grezzo e tarlato, semplici carte colorate), che sono trasformati in materiale nobile mediante l'impegno, la pazienza, la decantazione delle immagini e delle idee. Credo che questo sia
il vero meccanismo che presiede alla creazione artistica di Martinucci: la decantazione di nozioni scientifiche (ricordi anatomici, fisici), cosmologiche (il sole, la luna, i pianeti),
fisiologiche (la cellula, il cervello, il pensiero) di cui rimane il minuto ricamo delle scritte, tracciate senza pretese dotte, senza ambizioni scientifiche, ma tali da costituire una tessitura
di base - concettuale e iconica - all'evolversi delle successive fasi pittoriche.
E queste successive fasi, sono invece impostate sulla variegata stesura di colori variopinti ("Bunt ist meine Lieblingsfarbe" aveva detto persino Gropius), che costituiranno la meta ultima dell'opera , o forse solo l'embrione di opere successive in continuo divenire. Sicché questo spiega anche il perché dell'uso che l'artista fa del diritto e del rovescio della tavola o del quadro: il suo voler utilizzare ogni spazio dello stesso con l'horror vacui che non può ammettere un retro inutilizzato. Mentre, d'altro canto, un evidente horror pleni gli fa tralasciare in ogni tela vasti lembi di spazio non dipinto o non gremito di scritte, gli fa accendere larghe lacune tra le righe tracciate e le trame colorate, come nella tavola bianca a fasce arancione dell' "Occhio" in quella tutta azzurra del "Cielo" o in quella del "Cervello", dove è la tessitura stessa della tavola in compensato (con le sue imperfezioni e le sue scabrosità) a determinare le zone dipinte e quelle vuote, le zone scritte e quelle amorfe.
Il caso, dunque, che guida una mano forse in parte inconsapevole, ma anche: la volontà di scoprire i segreti della natura che porta ad un continuo e minuzioso controllo sul caso.
Maurizio Fagiolo - 1976
Un giovane che crede a un solo principio : l'oggetto-arte (ormai ) è legato a un filo,è un progetto sempre oscillante.
Ieri le linee con il colore esplosivo, oggi la ricerca esoterica) sul sole, sull’occhio, sul colore. Dalla retina al cervello. Tutto un discorso sul metodo, per cui vale la pena citare Cartesio: “Come un uomo che cammina nell’oscurità e solo, presi la risoluzione di avanzare tanto lentamente e con tanta circospezione, per cui, pur progredendo di poco, evitassi di cadere”.
Maurizio Fagiolo - 1974
Una fessura sottile che sembra compressa dalla superficie immacolata della tela.
E dietro, il colore riesce ad affiorare nella sua ricchezza iridescente: i segnetti nevrotici qualche volta si agglomerano ed escono dalla fessura con uno zampillo quasi surreale (gli inizi di Martinucci sono in chiave di anatomia espressionista).
L’operazione è tutta qui. Per chi fa arte, la pittura è il peccato originale.
Un altro pittore, un’altra ricerca: ma stavolta non aggiunge rumore al rumore.
Mi sembra utile il surplace sul linguaggio, in questo tempo di esistenzialismo viscerale e di vitalismo sguaiato (l’attuale momento o della body-art o del comportamento o dell’iper-realismo non è l’ennesima avanguardia ma la viziosa macroscopia di esperimenti già sperimentati). Mi sembra che questa ricerca si allinei a quel lavoro mentale e di critica dell’occhio particolarmente vivace qui ora (Griffa, Battaglia, Verna, Aricò, Paolini, Agnetti, Fabro, Mochetti, Gastini).
Surplace sul linguaggio: non tutti conoscono quale era il progetto di Malevic o di Mondrian o di Reinhardt, o anche il senso dell’interrogativo di Duchamp o Picabia; è sempre utile cercare che cosa c’è tra il nostro occhio e il bianco di Ryman, che cosa c’è dietro il taglio di Fontana. Questi quadri assenti di un giovane rappresentano qualcosa: l’analisi della tabula-rasa, la tautologia (pittura sulla pittura), la coscienza che a forza di inventare si dimentica l’umile arte di scoprire.
Patricia Howie - 1998 - Scritture dello Spirito, Spazio Blu
Considerando l'Universo quale centro dell'esitenza, l'artista coglie l'elemento vivente dell'anima, attivo nei nessi universali, e diventa così ponte per quel misterioso filo che intercorre tra il Cielo e la Terra.
È il come che muove l'artista alla creazione, mentre il che è solo la sostanza che lo circonda, nella quale egli è immerso, e si veste, la sostanza, di un bell'apparire.
Seguendo il lavoro di Martinucci possiamo cogliere la grandiosità di tutto l'organismo umano quale prodotto di sintesi spirituale. La forza che guida l'artista è l'eterno movimento eterico che non conosce barriere spazio-temporali.
L'arte come espressione di un percorso interiore di autoconoscenza e l'artista come creatore dell'idea scaturita dalla forza-pensiero: la trascrizione di verità spirituali date
da Rudolf Steiner rappresenta per Martinucci un modus vivendi, essendo quelle verità profondamente sentite e vissute in tutta la sua interiorità e nella sua creazione artistica.
Dalle carte, alle tavole, ai libri: l'esperienza di un dinamico rinnovamento che segue sempre e comunque l'immagine dell'uomo-spirito, della simbiosi tra il materiale ed il trascendente e diventa arte nel momento della certezza di questa simbiosi, appunto.
Letizia Riccardi - 2005
La mostra tenta di seguire il percorso espressivo di questo artista spaziando dai primi lavori con trascrizioni in microscrittura, su tavole, blocchi e libri in legno, tratte fedelmente dalle conferenze del dott. Rudolf Steiner, alle prime creazioni di libri in carta, dove su fondo nero alla scrittura si accompagnano le immagini. Siamo nei primi anni del '90.
L'evoluzione espressiva di Martinucci si manifesta poi in tutta una serie di piccoli libri. È un'esperienza eccezionale entrare in uno di questi piccoli diari-scrigno in cui l'artista ci accompagna attraverso le esplosioni e i vortici di colore nei suoi viaggi animico-spirituali.
Viaggi che continuano in una serie di libri coloratissimi di dimensioni più grandi e dalle forme più estrose. Si vedano le opere datate '98: "Piccolo libro azzurro", "Pupa farfalla", "Pensiero in espansione".
È forse proprio questo pensiero in espansione, che imprime alle forze imprigionate nei testi dei libri la necessità di espandersi nelle forme colorate che fuoriescono dalle pagine e occupano lo spazio circostante. Si vedano a tal proposito le opere che dal 2000 l'artista presenta: "Colore e forme astrali" su blocchi di legno (2001), "Scienza dello Spirito", "Digressioni sul Vangelo di Marco" e "Spiriti del colore e della forma" (2002) o le creazioni
(2003/2004) come "Conflitto di entità", "Le Forze di Marte" e le altre, dove l'intessersi sulle pagine del libro dei colori e lo svincolarsi dello stesso in traiettorie circolari attraverso Goethe
filamenti cartacei minutamente colorati, ci convince sempre di più che l'artista ancora una volta tenta di rappresentarci in immagini le sue esperienze spirituali nel cosmo.
Le ultime opere sono infine la sintesi di questa trentennale attività, quasi un documento testamentario delle ricerche formali fin qui sperimentate. Sorgono su un basamento ligneo mirabili architetture costruite con esili legni trascritti che si susseguono modulando lo spazio in ritmiche scansioni, intersecano un secondo piano, come fosse un cielo, e sopra si ricompongono le forze ascendenti dal terreno, per ricondursi incastonandosi, fino a formare una semicupola. Lo spazio interno è pervaso di un misterioso suono che discende irradiandosi dall'alto attraverso intrecci di onde circolari e raggi giù fino al centro dove campeggia un libro aperto irraggiante di colori.
L'incanto: tutto è in movimento ma il tutto permane in equilibrio.
Lorenza Trucchi - 1991
Nel dicembre 1976, in occasione del terzo decennio dell' "Obelisco", Gaspero Del Corso scriveva "Irene Brin ed io aprimmo questa galleria con una mostra di Morandi... Lasciamo
ora ad altri il compito di tirare le somme, noi vogliamo ancora considerarci sulla pista di partenza. Vogliamo prestare la nostra attenzione ai giovani. Trent'anni fa i giovani si chiamavano Burri o Rauschenberg (quest'ultimo ebbe da noi nel 1953 la sua prima personale).... Il nostro modo di far festa, nello spirito di Irene, che sempre ci accompagna e ci ispira, sarà quello di aiutare sempre più i nuovi talenti a manifestarsi e a realizzarsi al di sopra di ogni terrorismo intellettuale o di disciplina di clan, senza altra preoccupazione che la qualità."
Del Corso, che avrebbe potuto radunare, scegliendo tra le più di quattrocento mostre, ideate e curate una collettiva di eccezione da far invidia a qualsiasi museo, celebrò invece quell'importante anniversario con la personale di Gianni Martinucci, un pittore meno che trentenne, che all' "Obelisco" aveva debuttato due anni prima introdotto in catalogo da Maurizio Fagiolo.
Dopo un lungo periodo fervido di ricerche quanto segreto, solitario, interrotto solo dalla sporadica partecipazione a rassegne di "poesia visiva" e di "librismo", Martinucci si ripresenta al pubblico e all'attenzione della critica con un'antologia
che non esito a definire sorprendente, sia per l'originalità ed il rigore delle opere, sia per l'impegno umano ed operativo che sottende.
Concettuale e realista, visionario e obiettivo, sempre poeta, con una vena candida e ilare di follia, Martinucci sembra aver realizzato l'ardua equazione arte = vita.
Abita e lavora in una stanza di pochi metri quadrati soppalcata e divisa da fragili tramezzi,inverosibilmente gremita di oggetti, utensili, libri, pitture, disegni, piccole sculture. Una volta
entrati è pressoché impossibile muoversi e, difatti con garbo Martinucci mi pilota verso l'unica sedia: mi mostrerà ogni cosa collocandola nel poco spazio libero di un traballante tavolino.
C'è un ordine da alveare in questa casa-studio dove tutto pare occultato e dove tutto potrebbe rovinosamente franare e invece dove nulla è cercato invano e il gesto lieve, sicuro,
silenziosissimo di Martinucci nel prendere, esibire e riporre, assicura concentrazione e incolumità. In questa insolita condizione da ape regina ho potuto vedere, necessariamente
per sommi capi, quanto l'artista ha realizzato in anni e anni di studio e di lavoro. Anni come giorni, giorni come ore, resi simili ma non monotoni dal fervore del fare, dalla gioia dello
scoprire, dalla consapevolezza di maturare nel profondo della propria coscienza. Pensavo sulle prime: solo le api e le formiche vivono in mondi così esatti, ineludibili, implacabili. Ma presto mi accorsi che non era così. Che quell'alveare non aveva celle né sbarre: L'occhio di Martinucci spaziava,la sua mente pareva allenata a viaggi siderali, la sua speranza che sconfinava oltre la
vita, era integra e solare. Già da giovane Martinucci presentiva che "la vera realtà è altrove" al di là della parete e della strada, al di sopra dell'orizzonte e delle nubi ma che per accedervi
sono sempre necessari il nostro corpo, i nostri sensi "necessari, dice, come il trampolino per il tuffatore". Da pittore egli ha dunque cercato di visualizzare questo oltre senza tuttavia far
ricorso all'allegoria, al simbolo, alle immagini criptiche dell'inconscio o del sogno. Le prime opere esposte all' "Obelisco", battezzate "Fessure", erano dei monocromi con linee verticali
dalle quali affioravano minuti spruzzi di colore come bagliori di una luce sottostante.
Ma non era questa la strada. A chiarirgli quel bisogno di andare oltre fu la lettura dei testi antroposofici di Rudolf Steiner (1861- 1925), divenuto ben presto il suo Virgilio. Un incontro in parte annunciato, atteso, che produsse in lui una maggiore riflessione sulle motivazioni, ormai inscindibili, dell'arte e della vita. Mosso da un ardore da neofita, Martinucci smise addirittura di dipingere per immergersi nello studio dei numerosissimi testi di Steiner,
iniziando un'operazione conoscitiva e testuale: trascriveva intere pagine su dei quaderni.
Poi, ormai padrone della materia, prese a riportare i brani più significativi su dei legni con una minutissima grafia. In tal modo la scrittura si faceva immagine e tessitura, una tessitura viva,
brulicante, ben accordata con le scabrosità e le venature del supporto.
Attraverso questa operazione egli stabiliva un devoto colloquio con Steiner e ripercorrendone anche manualmente l'iter del pensiero, trasformava queste tavole della legge da medium in messaggio. Da allora, pur alternando generi, tecniche e materiali, Martinucci ha sempre cercato di incarnare il pensiero nell'opera. Un vero discorso sul metodo che lo ha portato a complesse ricerche, a giacenza esoterica sulla percezione, la luce, il colore o come in maniera più lirica egli afferma, "sull'occhio e il cielo".
Diversamente da quel che si fa di solito nelle presentazioni, non cercherò né di storicizzare né tanto meno di etichettare l'arte di Gianni Martinucci sebbene non sarebbe né difficile né (forse) inutile farlo. Preferisco in questo tetro e purtroppo ormai generalizzato clima di "tramonto dell'artista", limitarmi invece a segnalare un artista non nuovo ma, in un certo senso, inedito. Un artista umile, quanto autentico, degli ultimi per il quale l'arte
sia ancora una vocazione, una chiamata.
Franca Zoccoli - 2005
Quella di Gianni Martinucci è un'arte di contrasti: antica e attualissima, calibrata e spaesante. È antica per la processualità da amanuense medievale. È moderna perché suscita un mondo virtuale che trascende i limiti della fenomenologia, e ciò non attraverso un'indagine para-scientifica ma grazie a una ricerca parallela, portata avanti con strumenti squisitamente estetici. Chiuso nel suo studio - un piccolo, affollatissimo antro - come un monaco nella sua cella, l'artista crea ogni opera con infinita pazienza e tempi lunghissimi, curando puntigliosamente la perfezione formale di ogni dettaglio. Questa importanza data alla perizia manuale ci appare ancor più preziosa essendo ormai controcorrente da decenni sulla scena dell'arte, a cominciare dalla sciatteria della transavanguardia, che l'assumeva a categoria estetica, per passare alla truculenza dei neo-espressionisti tedeschi o dei graffitisti americani.
Nelle opere di Martinucci la limpidezza dell'impaginato imbriglia serpeggianti rovelli.
Se osserviamo una delle sue recenti strutture la mente si smarrisce nell'intricato, preciso microcosmo delle grafie millimetriche, come ci accade quando contempliamo
la via lattea e ci immergiamo in quello strascico di mondi remoti.
Artista anomalo, sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione.
Il suo lavoro non è riconducibile a correnti o movimenti ben definiti.
Sarebbe riduttivo definirlo scritturale o artista del libro, dato che i volumi-oggetto costituiscono solo un settore della sua produzione, mentre le grafie sono soltanto uno fra gli elementi del suo complesso mondo espressivo.
Dopo regolari studi all'Accademia di Roma, l'itinerario dell'artista inizia con opere di pittura nell'ambito di una figurazione dinamica.
Ben presto la sua attenzione si concentra sul colore esaminato non tanto nelle valenze pittoriche ma piuttosto per la complessità dei fenomeni percettivi, del rapporto fra
l'occhio e la mente. Lo affascinano gli scritti teorici sul colore di Goethe, di Kandinsky, fino a un incontro da lui considerato come un'autentica folgorazione.
La sua via di Damasco è un parcheggio: in luogo del cavallo un'automobile nella quale, aspettando un amico, trova per caso un testo di Rudolf Steiner. Era il 1975 e da allora l'ideatore dell'antroposofia (vissuto fra Ottocento e Novecento) è la guida spirituale, il guru che lo accompagna nel suo viaggio di sperimentazione.
Nelle opere di Martinucci compare adesso la scrittura lineare: frasi tratte da lavori di Steiner invadono superfici ed opere tridimensionali.
Sono grafie minuscole, quasi illeggibili, che sciamano fin sul rovescio della tela, si aggregano intorno ai nodi di tavole lignee, dilagano sulle pareti di elementi strutturali.
Nessuno le leggerà mai per esteso. Non occorre farlo. Vivificano il supporto con la loro vibrazione segnica, il pullulare delle cromie.
Hanno valore come significante, pur restando la consapevolezza che veicolano significati.
E cogliamo qui una parola, lì uno spezzone di frase che ci sembrano galleggiare, per motivi misteriosi, sull'oceano scritturale.
Talvolta invece le grafie sono asemantiche, suggerite da rettangolini di colore o da righe di nuvole contro cieli azzurri che rappresentano l'anelito dell'artista verso il "cosmo soprasensibile". Queste pseudo-grafie sono tracciate su tavolette che formano libri a due valve, oppure su pagine di libri-oggetto. Nella vasta e variegata linea produttiva che ripropone l'archetipo del libro, le pagine sono più spesso supporto
di microscritture vere. Ne risultano, in accezione moderna, codici miniati intrisi di spiritualità che inducono a rinnovare l'elogio della follia. La lentezza e minuzia ossessiva del processo creativo, la "ripetizione differente" dei gesti generano quasi uno stato di trance e così l'accumulo di infinitesimi segni diviene una sorta di scrittura automatica. In tal modo per via analogica e introspettiva, come osservava Gillo Dorfles già nel '76, Martinucci indaga le strutture recondite della natura, tentando di squarciare per un attimo il fitto velo che le occulta.
Epifanie - sostenevano i grandi romantici inglesi - concesse solo all'intuizione dell'artista.
Lungo la stessa linea le recenti "architetture" segnano un nuovo punto d'arrivo.
Potremmo definirle modellini di eventi meta-sensoriali; sono costruzioni complesse, leggerissime, fittamente invase da scritte, che vedono, ancora una volta, protagonista il colore. Già da qualche anno Martinucci avvertiva l'urgenza di sprigionare
i suoi tracciati cromatici dalla superficie del supporto. Nascono allora le tavolette dalle quali fuoriescono nastrini colorati che si arrotolano e intrecciano nell'aria.
Adesso, dardeggianti costruzioni spaziali azzardano la visualizzazione del momento germinale in cui l'energia si trasforma in materia. O più semplicemente ne offrono,
con umiltà, una lettura poetica.